La Passatella
''Tra vino e storie de cortello''
A metà Ottocento si contavano oltre seicento osterie, una ogni trenta passi. A Roma, città dell’acqua, il vino rischiava di insidiarne il primato.
Nessuna classe sociale, neppure nobili e cardinali, disdegnava le osterie, ritrovo universale per chiunque cercasse un rimedio alla sete, alla fatica, alle avversità quotidiane, alle delusioni d’amore, alla povertà o alla noia del troppo lusso. Ci si andava per dimenticare ma anche per incontrare amici e fare gazzarra. Immancabile, nel corso di una bevuta collettiva, la “conta del vino”, più nota come “passatella”.
Un gioco molto antico, risalente agli antichi romani che lo chiamavano “rex vini, regnum vini”: se ne trovano entusiastiche descrizioni in Catone e Orazio. Ma nel tempo le regole mutarono, così come sparì il carattere “nobile” del gioco per fare largo ad un passatempo godereccio, popolaresco e cruento. Il finale, attestano tutti i cronisti dell’epoca, degenerava frequentemente in rissa.
Lo scopo era far rimanere a bocca asciutta uno dei partecipanti, per poi sbeffeggiarlo. E non sempre il perdente accettava di buon grado di veder gli altri bere il vino che avrebbe dovuto pagare lui. La “passatella” aveva un regolamento molto rigido e fasi piuttosto complesse. Riassumendo all’estremo, gli elementi essenziali erano questi: tutti i giocatori procedevano alla conta aprendo simultaneamente le dita di una mano, come nel gioco della morra. Chi dalla conta risultava prescelto era detto, semplicemente, “la Conta”. Questi aveva diritto alla prima bevuta e doveva nominare il “padrone” e il “sottopadrone” del vino.
Al padrone spettava il compito di riempire a sua discrezione i bicchieri degli altri partecipanti. Più determinante, in realtà, era il ruolo del “sotto”: costui, infatti, poteva decidere di “passare”, ossia di saltare, uno dei giocatori. E poteva anche nominare dei suoi vice che a loro volta procedevano, ad arbitrio, ad ulteriori “passate”. Chi alla fine di una serie di giri, o mani, restava definitivamente escluso dalla bevuta veniva “fatto olmo” (termine di incerta etimologia che significa, appunto, escluso) e doveva pagare per tutti.
La “passata” era quasi sempre suggerita da rancori o ruggini personali; e si ha precisa testimonianza di dialoghi al vetriolo tra i “sottopadroni” e le loro vittime di turno. Non infrequenti, come si accennava, gli epiloghi a coltellate. Specialmente quando l’ “olmo” era un “paìno” dal sangue caldo, uno di quei giovanotti capaci di prendersela a male “si quarcheduno je carpestava l’ombra”. Oggi a Roma la passatella è morta e sepolta, ma qualche vecchio la gioca ancora (fortunatamente in modo del tutto pacifico) in qualche paese della montagna laziale.