Via Nomentana
La via Nomentana, che già dai tempi più antichi, è stata luogo privilegiato di insediamenti residenziali, conservò fino ai primi del Novecento quel suo aspetto romantico che ne fece una delle mete preferite da artisti, letterati e viaggiatori, come Goethe e Stendhal, da nobili, ma anche da popolani i quali, nelle tradizionali gite fori de porta, si fermavano nelle accoglienti osterie, spesso insediate nelle vecchie ville patrizie o nei casali dell’immediato suburbio.
L’osteria romana, e quella campestre in particolare, è stata argomento di numerosa letteratura che ne ha approfondito tutti gli aspetti di cultura, di tradizione e di costume. Basta al riguardo rammentare, oltre le citazioni di Hans Barth nella sua classica opera sulle osterie italiane, prefata da Gabriele D’Annunzio, i vari studi di Livio Jannattoni, che fu anche autorevole collaboratore di questa Strenna.
Qui vorremmo invece limitarci a descrivere le vecchie osterie di Via Nomentana, più o meno note o sconosciute del tutto, nella loro collocazione topografica e nella loro storia, che talvolta brevissima per contingenze urbanistiche o di mercato, si è svolta in qualche altro caso, durante l’arco di secoli.
Osterie, secondo il termine di uso tradizionale, comprensivo non solo delle mescite di vino, ma anche dei negozi di vino con cucina (osterie di cucina), e delle vere e proprie trattorie o ristoranti, questi locali, spesso eredi delle romane cauponae se posti all’incrocio di importanti vie di comunicazione, divennero talvolta ritrovi alla moda o comunque luoghi di incontro per ricevimenti e banchetti, in ciò favoriti dallo sviluppo urbanistico della nuova Capitale.
Immersi ancora in gran parte, nel silenzio incantato della campagna romana, li visitiamo compiendo una ideale passeggiata per via Nomentana in una giornata immaginaria tra Ottocento e Novecento.
Porta Pia (M. Brehm)
Usciti da Porta Pia, troviamo, in un breve slargo, l’ingresso della celebre Villa Patrizi a destra, ed a sinistra la Villa che nel Settecento fu dei Capizucchi, già lottizzata ed in parte edificata, come le altre antiche ville sulla sinistra della strada, fino al vicolo della Fontana.
Esse, divenute tutte di proprietà di Alessandro Torlonia, in un breve arco di tempo che va dal 1845 al 1870, erano state vendute dopo che il Piano Regolatore del 1883 aveva previsto la totale edificazione della zona.
Il Piano comprendeva anche l’allargamento da dieci a quaranta metri della Via Nomentana ed il R.D. del 14 febbraio 1889 dichiarava tale opera di pubblica utilità, dando avvio ai conseguenti espropri.
Giunti presso il confine tra Villa Capizucchi e quella che era stata la vigna dei Lancellotti, troviamo sul nuovo allineamento della strada il palazzo (tuttora esistente al civico 107) costruito dagli architetti Maestri di Milano e Bossi di Novara su licenza del 1886 e, ancora sporgente sul vecchio limite stradale, un complesso di costruzioni, comprendente il casino padronale dei Lancellotti sormontato da una torre pseudomedievale che spicca nelle antiche fotografie della zona.
In quel complesso aveva alloggiato, almeno fino ai primi dell’Ottocento, un’osteria con una capace grotta per i vini e vi abitava l’oste con la famiglia, come è documentato nell’atto di vendita della vigna al Cardinale Falzacappa.
Successivamente non vi è più traccia dell’osteria onde, non certo per giovarsi dell’avviamento commerciale, ma per una singolare coincidenza, nel 1889 Giovanni Scagnetti aprì in quegli stessi ambienti una trattoria che sarebbe divenuta una delle più prestigiose di Via Nomentana, con la denominazione di Pozzo di S. Patrizio.
In quell’epoca gli edifici erano di proprietà degli eredi di Alessandro Torlonia, i quali avevano venduto invece alla Banca Tiberina gran parte del parco.
Esso era ancora ricordato fino ai primi del Novecento, come Villa Lomellini dal Conte Cesare Lomellini di Pinerolo, colonnello della Regia armata Sarda, che aveva acquistato nel 1841 dagli eredi Falzacappa la vigna già Lancellotti, per rivenderla dopo pochi anni al principe Torlonia.
Villa TorloniaVilla Torlonia. (M. Brehm)
La Trattoria Scagnetti ebbe la suddetta denominazione di Pozzo di San Patrizio forse per l’esistenza di un pozzo di età romana con relativa galleria, evidenziato negli sterri del 1925, eseguiti per costruire per conto della Cooperativa tra ferrovieri Porta Pia il complesso di edifici segnato su Via Nomentana dal civico 133.
Il Pozzo di San Patrizio, dopo pochi anni dalla sua apertura, era già divenuto il ritrovo di tutti i buongustai, e della migliore Società di Roma come attesta Adolfo Giaquinto, poeta e gastronomo, in un raro libretto di poesie del 1896: Li fanatichi pè l’Acqua Santa ricordato da Jannattoni. Apprendiamo che era anche
Il ristorante Pozzo di San Patrizio in una foto del 1910 di Pietro Poncini. Sulla sinistra l’ingresso e la sala di posa dello stabilimento fotografico Golluccio, meglio visibile nell’altra foto coeva citata nel testo (Roma – Biblioteca Nazionale Centrale – fondo Ceccarius)
Intestazione di un conto della Trattoria Scagnetti, del 1897 (da Strenna dei Romanisti 1944) e annunzi speciali della Guida Monaci: 1884 (Mangani), 1904 (Brianti già Quattrocchi), 1892 (Panà); 1897 (al Montenegro, già Panà); 1915 (Batteria Nomentana) un locale attrezzato, con Palestra ginnastica tiro a segno ed orchestra, illuminato a gas acetilene e frequentato fin dopo le due del mattino.
Il gestore Scagnetti era d’altro canto, imprenditore di moderne vedute ed in quegli stessi anni dirigeva anche il Caffè concerto al Diocleziano in piazza delle Terme 12, uno dei locali che vide i primi debutti della giovanissima Lina Cavalieri.
Le particolari attrattive della trattoria Scagnetti con le sue pergole, i suoi chioschi di verzura e le sue verande assolate che prospettavano anche sulla costruenda Via Alessandria, sul retro della Nomentana, rivivono anche nel ricordo nostalgico di Enrico Tadolini fissato in poche pagine della Strenna dei Romanisti del 1944.
Il Pozzo di S. Patrizio restò legato al nome di Giovanni Scagnetti anche quand’egli a fine Ottocento ne cedette la gestione a Giacomo Grandis per aprire poco dopo, agli inizi del nuovo secolo, un altro caffè concerto, il Giardino Margherita all’angolo tra Via XX Settembre e Via Castelfidardo.
La fama del ristorante fu accresciuta dalla frequentazione degli artisti del noto gruppo dei XXV della Campagna romana, i quali, proprio lì si erano costituiti in associazione la sera del 25 maggio del 1904.
Erano dapprima una diecina di paesisti che aveva come guitto, cioè segretario, Onorato Carlandi, ma subito vennero nominati altri soci tra i quali Cesare Pascarella e durante le riunioni conviviali si procedeva alla premiazione dei lavori migliori.
Le esigenze del Piano regolatore imposero il taglio dei fabbricati eccedenti il nuovo allineamento della Via Nomentana, come risulta dal decreto prefettizio di esproprio del 23 dicembre 1904, ed il Pozzo di San Patrizio trovò allora una diversa decorosa collocazione sul nuovo confine, affacciandosi sull’ampio parco residuo, come lo vide Hans Barth, colpito dagli splendidi pini. Il progresso aveva nel frattempo fatto prosperare gli stabilimenti di fotografia ed uno di essi fu aperto nel 1909 dalla ditta di Giuseppe Golluccio, titolare anche di altri impianti, proprio a fianco del ristorante, come si vede in una rara foto del romanista Pietro Poncini (pubblicata nella citata Strenna del 1944) la quale completa la più nota fotografia della Collezione Ceccarius, scattata da un diverso angolo visuale.
L’urbanizzazione della zona, divenuta di proprietà della Società Generale Immobiliare, segnò la sorte dell’antica trattoria Scagnetti, ma la bellezza dei pini residui indusse la Commissione edilizia ad imporre, quale condizione per la licenza di costruzione dei nuovi edifici della Cooperativa Porta Pia, la conservazione di quegli alberi, nonché ampie aperture per renderli visibili dall’esterno.
Il ristorante cessò nel 1922 ed il suo ultimo gestore, Pietro Baracchini, ne perpetuò il nome del nuovo locale che aprì, per pochi anni ancora, in Piazza in Lucina.
Il Pozzo di San Patrizio era però diventato un toponimo, ed il terreno con il nuovo complesso edilizio, conservò a lungo quel nome.
Proseguiamo ora il nostro percorso, trovando più avanti sulla destra, la Cappella Bolognetti di S. Maria della Natività.
Casina delle Civette. (M. Brehm)
A fianco, come risulta da un’antica fotografia pubblicata a corredo di un precedente studio sulla Cappella, vi era l’Osteria dell’Alberata, con le sue insegne che reclamizzavano l’ottima cucina, i vini scelti dei Castelli ed i vini toscani, nonché il giuoco di bocce, di moda nelle osterie campestri di fine Ottocento. Essa, che prendeva nome dal viale alberato di ingresso alla villa Massimo, era stata aperta nel 1901 da Giuseppina Protani, ma già nel 1890 è segnalata in quel punto un’osteria di cucina e poi un negozio di vini, passato a vari esercenti.
Con l’allargamento di Via Nomentana la Cappella Bolognetti fu demolita; l’Alberata allora arretrò collocandosi a fianco del portichetto della nuova Chiesa di S. Giuseppe, dove restò all’incirca fino al 1909 allorché cedette il posto all’attuale palazzina, inizialmente destinata come risulta dalla licenza edilizia, ad esercizio di vendita di caffè tostato.
Quasi di fronte all’Osteria dell’Alberata, si estendeva il confine della Villa già Pitoni che, attraverso vari proprietari tra i quali il Conte Lomellini, era pervenuta anch’essa al Torlonia e poi alla Banca Tiberina e ad altri proprietari, tra i quali Giovanni Quattrocchi.
Questi nel 1887 aveva aperto nella vecchia casa ad uso del vignarolo un’osteria detta del mezzo miglio. Anche quella casa però era destinata a scomparire e gli allegati al decreto di esproprio del 1904 ce ne danno una sommaria descrizione, con le sue tre stanze destinate all’osteria con pavimenti di quadri di Napoli e pareti rivestite di carta da parato.
Ristorante del mezzo miglio.
La ditta Quattrocchi fu rilevata da Michele Brianti che aprì un moderno esercizio con la stessa denominazione del mezzo miglio nell’ampio giardino retrostante con accesso sulla strada, come risulta da una sbiadita fotografia nell’annunzio speciale che fece pubblicare nella Guida Monaci del 1904. Di questa trattoria, citata ancora negli anni 1920-21 non abbiamo in seguito altre tracce; la zona fu edificata e vi fu aperto nel 1925 il Corso Trieste. Poco più avanti, sempre sulla sinistra, davanti villa Torlonia, all’angolo con via Zara, opposto a quello dove già sorgeva il grande fabbricato Tossini del 1887 tuttora esistente, vi era un villino a due piani del 1891, con giardino. Qui, il proprietario Gaetano Panà, titolare di un esercizio di drogheria in via Nazionale, aveva aperto una trattoria con l’accogliente denominazione de il ritrovo degli amici. Questa però ebbe breve durata perché, dopo qualche anno, passata ad altro gestore che la chiamò trattoria al Montenegro cessò definitivamente.
La nostra passeggiata prosegue e segna ora una tappa importante.
Più avanti, a destra, nel comprensorio della villa già Mirafiori, in una casa sulla strada presso la grande serra a cristalli e nel relativo stazzo, troviamo un’osteria, chiamata Antica baracca, inaugurata nel 1890 da tal Roberto Guardati che l’aveva dotata del classico gioco di bocce, pubblicizzandola per i vini eccellenti, per la posizione amenissima e per lo splendido panorama che ne facevano un geniale ritrovo d’estate, raggiungibile con un servizio giornaliero di omnibus.
Quest’osteria, come indicava l’insegna, aveva una storia, ed anzi una lunga storia che risaliva al XVII secolo e forse anche prima. La troviamo infatti indicata nella pianta redatta da Giulio Martinelli, sottomastro di strada, il 16 ottobre 1661 ed anche nei mastri di tasse imposte a vigne etc… per l’occasionale risarcimento delle strade consolari del 1674 (vigna del sign. Ginnetti con casa su la strada dove si fa l’osteria).
L’Osteria della Baracca in un disegno allegato alla stima dell’ing. Viviani del Comune di Roma (Arch. St. Capitolino – Fondo Piano Regolatore posizione 9 fasc. 38)
Essa, posta in un punto strategico, e cioè all’intersezione della Nomentana con i vicoli di S. Agnese e di S. Costanza o della Valle di S. Agnese che si raccordavano alla Salaria, è citata in vari documenti del Settecento, mentre dal Catasto Gregoriano apprendiamo che un’intera zona a nord era denominata località Baracca.
Nel 1874, la casa con osteria era affittata a Marianna Pozzonetti, vedova di un Alegiani che apparteneva ad una famiglia romana di osti, gestori tra l’altro del vecchio Passetto e della trattoria locanda di Piazza del Paradiso.
In quell’anno, la vedova Alegiani aveva però dovuto abbandonare i locali poiché, assieme all’annessa vigna, erano stati venduti con atto 8 agosto a rogito Adriano Bosi alla Contessa di Mira-fiore, Rosa Vercellana.
L’ultimo proprietario era don Marino Caracciolo, Principe di Ginnetti e d’Avellino, titolare della primogenitura dei Lancellotti Ginnetti, i quali da tempo immemorabile possedevano la vigna e l’osteria come dai documenti sopra citati.
La vendita fu necessitata dal desiderio di Re Vittorio Emanuele II di creare per la sua morganatica Consorte una residenza facilmente raggiungibile dal Quirinale.
Essa venne formata, oltre che dalla vigna dei Lancellotti, dalla vigna già Mauri, poi passata al patrimonio privato del Re e dai terreni già Battaglia e Cicognani che l’avvocato Giovanni Battista Malatesta aveva da poco trasformato in villa.
La sontuosa villa Mirafiori, pur perpetuandosi nel nome, restò per pochi anni soltanto in proprietà della Contessa, perché dopo la morte di Vittorio Emanuele nel 1878, venne di nuovo smembrata.
Ciò rese possibile, appunto nel 1890, la riapertura dell’osteria col nuovo gestore.
Essa, nonostante le moderne attrezzature pubblicizzate, restò però sempre un’osteria di cucina, così com’era la precedente Baracca, con i suoi locali terreni collegati da una scaletta ad un ambiente superiore sottotetto, con la sua grotta ed altri accessori, il tutto di carattere decisamente rustico e campestre.
Anche la villa Mirafiori, divenuta intanto, nel suo nucleo centrale, di proprietà della ditta Luigi Marsaglia che aveva acquistato nella zona vari terreni a scopo speculativo, dovette arretrare il proprio confine per l’allargamento della strada, perdendo, oltre che la grande serra ed altre costruzioni, anche la Baracca di cui fu redatta dall’Ufficio del Piano Regolatore una stima con disegno, unica traccia iconografica rimastaci della gloriosa osteria che aveva segnato per secoli un punto di sosta per i viandanti diretti alla basilica di S. Agnese.
Essa chiuse definitivamente i battenti nel 1901, con l’ultimo gestore, Giovanni Michisanti.
L’esame degli antichi documenti ci fornisce un’altra notizia. Proprio di fronte all’Osteria della Baracca, nella vigna che apparteneva a tal Giuseppe Buzi e che, attraverso vari passaggi di proprietà, pervenne a fine Ottocento ai Conti Malherbe d’Amanville ed all’americana Costanza Midleton, è segnalata nei citati mastri di tasse del 1674, un’altra osteria.
Essa, che forse era però soprattutto una stazione di cambio per i cavalli (alcuni documenti parlano di stabulum), non ha lasciato tracce. Ricordarla perciò è una notazione storica, ma è anche la conferma dell’importanza dei raccordi stradali, per l’insediamento di luoghi di ristoro nei lunghi viaggi per la campagna romana.
Nella Guida Commerciale di Roma, che Tito Monaci aveva fondato nel 1870, compare più volte, pochi anni dopo quella data, un annunzio pubblicitario relativo alla Trattoria Mangani, antichissimo stabilimento con vastissimo locale per pranzi di gran numero di persone. Ne era gestore Gioacchino Mangani, figlio ed erede di Tommaso Mangani, proprietario di un vasto appezzamento di terreno (mappa 65 dell’Agro Romano Suburbano, particelle da 4 a 8), che si collocava, nel fronte strada, tra l’attuale zona militare (già Batteria Nomentana) e la ferrovia, e si estendeva nel retro fino all’ansa dell’Aniene nella zona che tuttora è denominata borghetto di Vigna Mangani, con le sue stradine quasi campestri che ricordano l’antica proprietà.
La trattoria preesisteva al 1870 e la troviamo infatti citata da Ugo Pesci, giornalista al seguito delle truppe dirette alla presa di Roma, mentre nella sua versione moderna è ricordata da Hans Barth per la folla domenicale, per la vista dei monti e per le montagne… di spaghetti.
Questo esercizio ebbe lunga vita perché, passato ai figli di Gioacchino, Domenico e Giovanni Mangani, i quali fecero costruire nel 1890 un monumentale cancello di ingresso alla loro proprietà, fu rilevato, agli inizi del nuovo secolo, da tal Paolantoni Antonio che lo pubblicizzò più volte nella Guida Monaci per lo splendido panorama dei Castelli per le sale superiori per banchetti e perché servito da una fermata facoltativa del tramway; esso cessò forse negli anni venti.
Anche se la pubblicità indicava la trattoria Mangani come prossima a S. Agnese, abbiamo superato di parecchio l’antica Basilica e ci apprestiamo a varcare il ponte della ferrovia che allora segnava la barriera daziaria della città.
Al di là del ponte, a sinistra, troviamo la trattoria della Batteria Nomentana grande ristorante campestre, con terrazza sulla ferrovia, che Hans Barth ricorda come osteria popolare, allietata dalla vista dei colli della Sabina e delle case di Frascati, con le finestre ardenti nel tramonto di fuoco. Anche questo locale non è più segnalato dopo gli anni venti.
Ma ecco che la via Nomentana discende all’antico ponte sull’Aniene, soggetto preferito da tanti artisti per il suo castello merlato e turrito, ora opportunamente restaurato e chiuso al traffico. Poco dopo il ponte, un’antica casa alle falde della celebre collina del Monte Sacro, ospita l’Osteria denominata dei Cacciatori.
Essa è descritta dal Barth come rustico e rumoroso ritrovo di contadini e plebei e, con le stesse caratteristiche, fa da sfondo ad un episodio del Piacere di Gabriele d’Annunzio.
è ricordata altresì da Ugo Pesci nel volume citato, come quartier generale di Mazé de la Roche, comandante della 12a divisione in marcia verso Porta Pia, e dal Tomassetti per la scoperta nei suoi pressi, nel 1866, di antichi ruderi.
La sua storia però si perde nel tempo. Già nel secolo XVI troviamo infatti citata quell’Osteria in antichi documenti del Convento delle monache di S. Silvestro in Capite e nel 1674 nei Mastri di tasse viene elencata una Osteria de Lamentana (corruzione medioevale di Nomentana). Le suddette monache poi, in un atto del 1744 con il quale capitolarmente congregate deliberano di affittare la loro tenuta di Ponte Lamentano, fanno cenno alla Osteria e casa vicino il Ponte.
Non sappiamo se l’antica casa dell’Osteria dei Cacciatori fosse la stessa alla quale si riferivano quei documenti, ma è certa la coincidenza topografica.
Peraltro, il Vasi nella veduta di Ponte Nomentano, incisa nel 1754, raffigura presso il Ponte una casa con osteria; essa sembra coincidere, salva qualche diversità nell’apertura delle finestre, con l’edificio tuttora esistente al nº 414 di via Nomentana, che ospita la Pizzeria Ponte Vecchio.
In una continuità di documenti e di immagini, possiamo perciò concludere che l’antica osteria sopravvive nel moderno locale e che esso, molto frequentato specialmente nelle sere d’estate con il suo ampio giardino, è l’unico testimone delle osterie che abbiamo fin qui idealmente visitato.
Il nostro itinerario si ferma al Ponte, ma non possiamo dimenticare altre antiche osterie del tratto urbano di Via Nomentana, di cui vi è difficoltà nell’identificare l’esatta ubicazione, come l’Osteria cucinante di Francesco Ciacci, indicata nel 1872 come al di là di S. Agnese, che diviene osteria del monticello contrassegnata col civico 44 e poi, nel 1899, col civico 297, evidentemente a seguito del notevole incremento edilizio.
Vicino a S. Agnese troviamo poi, prima dell’Osteria Mangani, l’Albanese che, già deceduta nell’edizione del 1910 dell’opera di Hans Barth, viene ricordata per un gigantesco pino sopra una specie di villaggio africano, mentre oltre il Ponte vi era Il Forte di Makallé e l’osteria del Ponte Nomentano allocata nel palazzo dei Tanlongo, divenuti proprietari di quella tenuta.
A fine Ottocento, secondo la Guida Monaci, Via Nomentana pullulava di trattorie, negozi di vino ed osterie di cucina (a quelle citate si aggiungano tra l’altro alla città di Cettinje, la Toscana, la Montagnola, al Pino, oltre che una pizzeria napoletana, la bella Napoli, proprio di fronte al Pozzo di S. Patrizio), e ciò era indice della rapida urbanizzazione che stava trasformando quei luoghi. Essi conservavano però sempre l’antica attrattiva di gite fuori di porta, ora completamente cancellata dall’aspetto moderno della strada.
Divenuta arteria di grande comunicazione e perduti i suoi viali laterali a giardino, trasformati in corsie veicolari, con i marciapiedi che soffocano nel cemento i secolari platani superstiti, la Via Nomentana ha visto moltiplicare nei suoi immediati dintorni, locali per ogni tipo di clientela, ma, nel percorso fino al Ponte sull’Aniene, il progressivo aumento del traffico e dei parcheggi, non ha lasciato più spazio alla tranquilla sosta delle sue vecchie osterie.