Quartieri storici

Gianicolense

Purfina, periferia romana. L’isola che c’è.

L’urlo era belluino. Arrivano i baraccati della maglianaa! E tutti scappavano. In realtà non esistevano da una vita i baraccati della magliana, non so nemmeno se ci siano mai stati. Ad essere onesto. Nel cuore di Roma a due passi dal San Camillo, dietro Monteverde, poco sopra piazzale della Radio c’era la raffineria di Roma, si chiamava Purfina. Pochi lo sanno, i più vecchiotti se la ricordano. Un tempo in zona le ciminiere erano evidentemente un paio: quella della raffinazione colla fiammella che brucia alta, e quella della camera mortuaria dell’ospedale, ancora in funzione fino a poco tempo fa. A metà degli anni sessanta decisero che la faccenda era abbastanza insalubre, o che forse conveniva spostare l’olio nero a due passi da Malagrotta, e regalare la collinetta ai palazzinari. Da raffineria a quartiere di Roma, una virgola sul piano regolatore. Nasceva l’ex Purfina. Una volta m’hanno detto che c’è chi la chiama l’isola. Pessimo nome, ma rende l’idea: un mucchio di palazzoni alti in media nove dieci piani, tagliato da una parte da via Majorana, dall’altra dal terreno dell’ex raffineria, ormai campetto per cani e ragazzini, e verso il centro delimitato dalla Stazione di Trastevere. Non è una borgata. E nemmeno un quartiere residenziale di Roma. Quando ero ragazzino le urla belluine risuonavano nel campetto dove giocavamo a calcio, la raffineria stava proprio lì. Si vedevano ancora i tuboni neri della pipeline che poi sono spariti. Il glorioso comitato di quartiere reclamava un posto per i bambini. Volevano chiamarlo parco Gianni Rodari. Noi correvamo sul cemento e dribblavamo anche le siringhe. Poi è finita l’eroina. E il grande sindaco (un tutt’uno: Rutelloni) l’ha trasformato in un luogo appetibile anche per le carrozzine. Adesso si chiama parco Gianni Rodari: vent’anni dopo.

I bar di periferia sono quei posti dove c’è sempre qualcuno di fronte che staziona. Sembra aspetti. In realtà non aspetta nulla o nessuno. Sta in piedi, a braccia conserte, lo sguardo al chilometro. A fumare una sigaretta, a non far niente. Male che vada passa qualcuno di conosciuto, e butta una battuta, un saluto: “Bella secco!”,… risposta: “aò, bella…”. Davanti al bar tabacchi di piazza Ampère c’è sempre almeno uno che incrocia le braccia. Gente del quartiere. Molti erano con me alle medie. Medie di confine tra viale Marconi, Oderisi di Gubbio da un lato, e via della Magliana, dall’altro. A Carnevale arrivavano: non erano baraccati ma tiravano le uova lo stesso. Ogni tanto si crocchiavano di santa ragione, scontri tra bande di sale giochi diverse. Andava di moda il videogame da bar, quello delle olimpiadi. Che dovevi fare una sega al joystick per vincere i 100 metri. Io in classe le prendevo da uno che diceva: mio padre fa il bidello ai mercati generali. Più semplicemente faceva il doppio lavoro: il bidello in una scuola elementare e poi il facchino ai mercati generali. Mi stritolava le orecchie, mi dava certe pizze che diventavo tutto rosso. Menava più di me, io ovviamente abbozzavo. Poi feci amicizia (siamo amici tuttora) con Fabio detto er Negro. A 15 anni era ancora in prima media, io gli passavo i compiti, lui mi proteggeva. Semplice. Adesso ha un figlio che si chiama Daniel. Come Fonseca.

Davanti al baretto, c’è gente che lavora, altri che non fanno una ceppa, qualcuno forse spaccia. Proprio lì un giorno spararono a uno. Non era chiara la ragione, ma lo stavano aspettando per seccarlo: il colpo gli entrò sotto l’occhio, all’altezza dello zigomo. Dicevano che era questione di donne, o forse di eroina. Non s’è mai capito. Per anni l’alberello davanti al tabacchi dove il tipo era caduto tra le urla della ragazza che aveva assistito alla scena, era diventato un totem del ricordo. Foto, peluche, sciarpe della Roma, scritte, bigliettini. Ne è piena tutta Roma. In genere sono lapidi spontanee per quelli che muoiono in motorino. Il tabacchi, che era anche latteria, lo tenevano marito e moglie assai simpatici, io ero follemente innamorato di una delle due figlie. Compravo quintalate di Mars solo per andarla a vedere. Non le ho mai detto nulla. Un caschetto nero splendido e due occhi neri grandissimi. Rispondeva al telefono: prontobaàr? Scendevo anche a comprare il latte fresco, oggi non si compra più. Lei mi guardava e sorrideva. Si fidanzava con quelli più grandi, non avevo alcuna speranza. A un certo punto è sparita e come nel migliore dei luoghi comuni possibili, s’era sposata, ingrassando a dismisura. Conservava ancora un bel viso. Ma non era più il fiore di periferia d’un tempo, per citare Valerio.

Sempre lì sotto, al baretto, si riuniva un pezzo di colonna romana delle bierre. Da ragazzino mi divertivo a guardare i treni, una mattina vidi pure i poliziotti che sparavano ai brigatisti che scappavano lungo i binari della stazione Trastevere. Li avevano beccati. Più avanti negli anni trovarono una signora morta in un appartamento nella mia scala. Erano separati in casa: il marito se ne accorse dalla puzza. E poi – anni dopo – un polacco carbonizzato infilato dentro un cassonetto. Nessuno sapeva che era polacco, ma era diventato polacco. La prima migrazione infatti d’oltrecortina arrivò proprio da noi e il ricordo era vivo per cui ogni slavo, o più semplicemente biondo, diventava polacco. Un palazzinaro per farsi amica santa sede e comune aveva dato un sacco di appartamenti ai primi polacchi che arrivavano in Italia. Era il periodo in cui il papa riceveva i briefing dalla Cia sulla situazione a Varsavia, le foto satellitari che inquadravano un puntino bianco stretto da una folla immensa, e Reagan aveva capito che il Vaticano aveva più divisioni di quante se ne possano immaginare.

Al campetto – l’anno che murammo il portone principale del Virgilio – andammo sotto casa mia a spaccare i tavelloni di cemento. Fummo notati da alcuni, gente di fuori, uno il fazzolettaro, chiese ad Andrea e Pippo cosa stessero facendo. Loro risposero di circostanza. Il tipo tirò un destro sulla spalla in segno di amicizia al Mister. Pippo lo apostrofò sperando di raccogliere un po’ di benevolenza: aò ma io te conosco, te sei il fazzolettaro di Ponte bianco. Un altro destro stavolta dritto dritto sullo sterno. Non aveva apprezzato. C’era poco da fare. Sono casi in cui capisci che è meglio incassare. Salutare e andarsene.

Non c‘è mai stato un ristorante all’ex Purfina. Non è luogo da ristoranti. Al massimo una rosticceria che faceva un’ottima pizza ai funghi. Era l’unico ristoro della zona. Un paio di alimentari: e da uno mi rifornivo di rosette per la merenda a scuola. La tenutaria una signora anzianotta, ciccionissima e un po’ avida, le faceva imbottite anche con la testina di vitella, che da ragazzino adoravo.